Violenza o minaccia a pubblico ufficiale (art. 336 c.p.)

L’art. 336 c.p., rubricato “Violenza o minaccia a pubblico ufficiale”, così recita:

“Chiunque usa violenza o minaccia a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di pubblico servizio, per costringerlo a un atto contrario ai propri doveri, o ad omettere un atto dell’ufficio o del servizio, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.

La pena è della reclusione fino a tre anni, se il fatto è commesso per costringere taluna delle persone anzidetta a compiere un atto del proprio ufficio o servizio, o per influire, comunque, su di essa”.

 

La norma è collocata nel capo II del titolo II del codice penale poiché appartiene alla categoria dei delitti dei privati contro la pubblica amministrazione e tutela il funzionamento e il prestigio della pubblica amministrazione.

Si tratta, dunque, di un reato comune perché può essere commesso da chiunque, mentre il soggetto passivo è il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, non anche l’esercente un servizio di pubblica necessità. In tal caso il reato ipotizzabile potrà essere la violenza privata.

Appare quindi opportuno chiarire in capo a chi siano ravvisabili le due qualifiche richieste per i soggetti passivi.

 

Nozione di pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio

L’art 357 c.p., intitolato “Nozione del pubblico ufficiale”, recita:

”Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro che esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa.

Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o del suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi”.

 

Mentre la pubblica funzione legislativa e giudiziaria sono concetti intuitivi, non altrettanto si può dire per quello di pubblica funzione amministrativa.

 

Innanzitutto, il primo problema da risolvere è capire che cosa sono le norme di diritto pubblico citate dall’art. 357 c.p.

 

Sono norme di diritto pubblico quelle che disciplinano l’organizzazione e il funzionamento dello Stato e degli altri enti pubblici, e i rapporti fra il cittadino e gli stessi.

 

Esse, dunque, regolamentano l’organizzazione e l’attività dei diversi settori della P.A. nonché la classificazione e la natura degli atti della stessa P.A., ossia le attività e gli atti in cui consiste la pubblica funzione svolta da specifici soggetti inseriti organicamente in tali settori.

 

Il pubblico ufficiale è, dunque, colui che svolge una pubblica funzione, ossia, come si è detto, un’attività regolamentata da norme di diritto pubblico, la quale si esplica nell’emanazione di atti autoritativi, ossia di atti che sono l’estrinsecazione di poteri autoritativi, tra i quali non rientrano solo i “poteri coercitivi” (di arresto, di perquisizione etc.), ma anche tutte quelle attività che consistono in manifestazioni di volontà della P.A. caratterizzate dall’esercizio di un potere pubblico discrezionale (ad es. il rilascio di autorizzazioni amministrative) nei confronti di altro soggetto (sempre nell’esempio, il destinatario dell’autorizzazione) che così viene a trovarsi su un piano non paritetico rispetto all’autorità che tale potere esercita, potendo egli tutt’al più, in taluni specifici casi, essere titolare di interessi legittimi.

 

La pubblica funzione può svolgersi anche attraverso l’esercizio di poteri certificativi che consistono nell’attività di documentazione cui l’ordinamento assegna efficacia probatoria.

 

Talora potere autoritativo e potere certificativo possono coesistere nella medesima pubblica funzione, ma non necessariamente.

 

La giurisprudenza, nel corso dei decenni, ha elaborato una vastissima casistica, che fornisce un valido supporto per dirimere il dubbio sulla sussistenza o meno della qualifica soggettiva in esame in talune fattispecie concrete.

 

Esempi di pubblici ufficiali che possono trarsi dalla quotidianità sono:

  • i notai;
  • i giudici e i cancellieri nell’esercizio delle loro funzioni;
  • i medici ospedalieri quando sono in servizio in ospedale e rivestono un ruolo apicale(ossia primari o aiuti primari, oggi denominati rispettivamente dirigenti medici di secondo e primo livello);
  • gli insegnanti delle scuole pubbliche;
  • gli agenti di polizia giudiziaria;
  • gli ufficiali di anagrafe e di stato civile;
  • gli scrutatori nell’esercizio delle loro funzioni nei seggi;
  • il sindaco.

 

L’art. 358 c.p., intitolato “Nozione della persona incaricata di pubblico servizio”, recita:

“Agli effetti della legge penale sono incaricati di pubblico servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio.

Per pubblico servizio deve intendersi un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima, con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale”.

 

L’incaricato di pubblico servizio è, quindi, colui che presta un servizio pubblico, cioè un’attività disciplinata da norme di diritto pubblico, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici della funzione pubblica, ossia dei poteri deliberativi, autoritativi o certificativi di cui si è detto.

 

Il pubblico servizio ha anch’esso una regolamentazione di natura pubblicistica, al pari della pubblica funzione, che vincola l’operatività dell’agente o ne disciplina la discrezionalità senza, però, conferirgli i poteri propri della funzione pubblica.

Non possono essere ritenuti incaricati di pubblico servizio coloro che svolgono solo mansioni di ordine e prestazioni di opera meramente materiale.

 

A mero titolo di esempio, sono incaricati di pubblico servizio:

  • i medici di reparto o di pronto soccorso quando sono in servizio in ospedale e non rivestono un ruolo apicale;
  • i farmacisti;
  • i bidelli, sebbene vi siano talora contrasti giurisprudenziali in merito;
  • le guardie giurate che svolgono funzioni di portavalori;
  • i letturisti dei contatori delle società di somministrazione Gas, delle società di Energia Elettrica;
  • i dipendenti postali addetti allo smistamento della corrispondenza;
  • i riscossori delle tasse automobilistiche;
  • il sub-concessionario per la gestione dei giochi telematici in relazione alla riscossione e versamento di quanto dovuto allo Stato;
  • il conducente di un mezzo pubblico di trasporto;
  • gli ausiliari del traffico quando accertano e contestano i divieti di sosta all’interno delle aree in concessione alle imprese di gestione parcheggi;
  • i necrofori.

 

Esercitano mansioni di ordine e prestazioni di opera meramente materiale e quindi non sono incaricati di pubblico servizio, sempre a mero titolo di esempio:

  • il portiere di un ospedale;
  • l’operatore ecologico (netturbino);
  • il tassista;
  • l’addetto al servizio di riscossione del pedaggio in un parcheggio automatizzato di un’azienda comunale;
  • i dipendenti comunali con le mansioni di interratori addetti alla sepoltura delle salme;
  • l’usciere di un ufficio giudiziario.

Essi sono, dunque, soggetti privati.

 

Gli incaricati di servizi di pubblica utilità sono coloro che operano nel contesto dei servizi di comunicazione elettronica, dei servizi postali, di trasporto, di energia elettrica, di gas, di acqua (cfr. L. 481/1995).

Si è già anticipato che essi non possono essere vittime del reato in esame, ma tutt’al più, ove ne ricorrano i presupposti, di violenza privata al pari di qualsiasi altro soggetto privato.

Secondo la giurisprudenza, il testimone può essere vittima del reato in esame poiché si ritiene che sin dal momento in cui il giudice ne dispone la citazione, dunque prescindere dalla sua materiale ricezione della medesima, esso è da considerarsi p.u., ovviamente limitatamente a tale veste processuale.

Si osserva che, per quel che rileva ai fini della presente trattazione, anche il cittadino privato che procede all’arresto ai sensi dell’art. 383 c.p.p. può essere considerato un pubblico ufficiale e pertanto godrà della tutela dell’art. 336 c.p..

Nella maggior parte dei casi, la fattispecie di cui all’art. 336 c.p. viene commessa dal privato in occasione di controlli, ai fermi o agli arresti operati dalle forze di polizia, che intervengono in funzione di situazioni di sospetta commissione di altri reati o di flagranza di reato, o per eseguire misure cautelari.

Per tale ragione, nella casistica il reato è quasi sempre contestato in connessione con altro reato, quello che cioè ha generato l’intervento delle forze dell’ordine, raramente in via autonoma.

Spesso, proprio per le ragioni di cui sopra, addirittura violenza e resistenza a p.u. sono contestate insieme.

 

Elemento oggettivo del reato

In dottrina si ritiene che la norma in esame preveda due distinte ed autonome ipotesi di reato: la prima, in cui la violenza e la minaccia sono orientate al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio, la seconda, sanzionata in modo più lieve, mirata al compimento di un atto d’ufficio.

“Atto d’ufficio” è concetto assai ampio poiché, sulla base di quanto negli anni elaborato dalla giurisprudenza di legittimità, esso non consiste esclusivamente in un atto amministrativo, ma comprende tutti i comportamenti materiali o giuridici che siano riconducibili all’incarico e funzione del p.u. o dell’incaricato di p.s. anche per via consuetudinaria.

La “contrarietà ai doveri d’ufficio” è configurabile non solo nel caso di violenza o minaccia esercitate dal privato perché il p.u. o l’incaricato di p.s. compiano atti illeciti o illegittimi, ma anche nell’ipotesi in cui l’atto compiuto dal p.u. o incaricato di p.s. sotto violenza o minaccia è formalmente regolare, ma realizzato prescindendo dall’adempimento dei doveri istituzionali previsti da norme di qualsiasi livello, comprese le prassi e consuetudini.

Occorre dunque valutare l’insieme del servizio reso al privato e verificare se ogni atto singolarmente considerato corrisponda ai requisiti e alle finalità di legge e non contravvenga ai doveri di fedeltà, imparzialità ed onestà che devono essere osservati da chi esercita la pubblica funzione, il quale li trasgredisce non volontariamente ma per effetto della coercizione fisica o morale cui è soggetto.

La stessa cosa vale allorquando si tratti di atti del soggetto pubblico caratterizzati da natura discrezionale poiché nell’esercizio di tale potere devono comunque essere rispettate le relative regole per l’emanazione degli atti; ma, nel caso di violenza e minaccia nei confronti del p.u., la sua libertà di scelta è coartata dal privato.

Violenza e minaccia sono termini che designano tutte le forme di coercizione sia fisica sia morale nei confronti del soggetto passivo del reato. Dunque, commette il reato il privato che faccia ricorso ad espressioni verbali anche indirette, che prospettino un male ingiusto per il p.u. o altre persone a lui vicine qualora egli non compia un atto contrario ai doveri d’ufficio o non ometta un atto d’ufficio.

Data la contiguità fra il reato in esame e la resistenza a p.u. (art. 337 c.p.), la differenza fra le due fattispecie consiste nel fatto che nella prima, la violenza o la minaccia precedono il compimento dell’atto da parte del pubblico ufficiale e sono usate contro di lui, nel caso della resistenza, invece, la violenza o la minaccia vengono esercitate per opporsi al p.u. durante il compimento dell’atto.

Il caso tipico di resistenza a p.u. è quello della persona, colta in flagranza di reato, che si divincola e si oppone al suo arresto da parte del rappresentante delle forze dell’ordine che l’ha fermata.

Qualora, invece, la persona si accorga dell’incombente intervento delle forze dell’ordine che stanno per fare ingresso nel luogo in cui si trova nascosta, per impedirlo scateni i suoi cani da guardia, è configurabile il reato di cui all’art. 336 c.p..

Tuttavia, esistono molte situazioni concrete in cui la distinzione fra le due fattispecie non è così netta poiché non sempre è semplice ricostruire il momento in cui, specie in situazioni concitate, la coercizione viene esercitata.

 

Elemento soggettivo del reato

Esso consiste nel dolo generico, ossia nella coscienza e volontà di usare la violenza o la minaccia come mezzo di costrizione del soggetto passivo perché violi i propri doveri o non li adempia.

Esimente della legittima reazione ad atti arbitrari (art. 393 bis c.p.)

L’art. 393 bis c.p., rubricato “Causa di non punibilità”, stabilisce:

“Non si applicano le disposizioni degli articoli 336, 337, 338, 339, 339 bis, 341 bis, 342 e 343 quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni”.

Questa norma stabilisce in quali casi la reazione del privato agli atti del pubblico ufficiale è lecita, in quali casi cioè il ricorso alla violenza o alla minaccia del privato di cui all’art. 336 c.p. non possa essere punito.

Dalla lettura dell’art. 393 bis c.p. si ricava che i presupposti della reazione lecita sono:

  1. che il p.u. abbia ecceduto rispetto ai limiti delle sue attribuzioni;
  2. che il p.u. abbia compiuto atti contrari ai propri doveri o omesso un atto dell’ufficio, ossia atti arbitrari;
  3. che l’eccesso abbia dato causa alla reazione del privato.

In estrema sintesi, senza pretesa alcuna di completezza:

  1. In generale, l’eccedere dai limiti delle attribuzioni si sostanzia nel ricadere in uno dei vizi tipici dell’atto amministrativo: incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere. Quest’ultimo consiste nell’uso del potere discrezionale per un fine privato.
  2. L’arbitrarietà dell’atto, secondo la giurisprudenza di legittimità, si ravvisa allorquando il pubblico ufficiale, eccedendo dai limiti delle sue attribuzioni, tenga una condotta improntata a sopruso, prepotenza, malanimo nei confronti del privato destinatario della medesima.
  3. La reazione del privato deve essere proporzionata alla gravità del fatto arbitrario compiuto dal p.u. o dall’incaricato di p.s.; inoltre, vi deve essere immediatezza temporale tra l’eccesso del soggetto qualificato e la reazione del privato.

 

Cosa fare in caso di accusa di violenza o minaccia a pubblico ufficiale (art. 336 c.p.)

Perché ricercare l’assistenza di un avvocato penalista a Torino?

Come visto in precedenza, non è così agevole valutare la sussistenza di tutti gli elementi necessari a configurare le fattispecie in esame.

Pertanto, a meno di una qualificazione già contenuta in un atto giudiziario, sarà opportuno rivolgersi ad un legale per chiarire quale sia la corretta disciplina applicabile al caso di specie. Ma, attesa la complessità delle questioni interpretative, anche in caso di qualificazione già formulata in un atto giudiziario, non può escludersi che la stessa possa essere messa in discussione.

Gli avvocati Anselmi e Muci sono disponibili ad esaminare i casi a loro sottoposti per indicare la migliore qualificazione giuridica e la strategia da seguire, sia in caso si sia danneggiati dal reato, sia nel caso si sia accusati di esso.

Nel caso sia necessario presentare una denuncia all’Autorità Giudiziaria, l’assistenza di legali esperti come gli avvocati Anselmi e Muci consentirà di predisporre tale atto adeguatamente.

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